Leggo su un blog che ogni tanto frequento (mi correggo: "frequentavo") una
discussione sul tema: “La morte del prossimo”, libro scritto da Luigi Zoja,
uno psicoanalista di fama mondiale che pratica la professione a
New York, dove scrive e insegna psicanalisi.
Stralciando qua e là gli elementi del discorso, ne riporto quelli principali:
“Le
distanze che la globalizzazione ha reso meno evidenti, favoriscono i rapporti
tra persone lontanissime e sembrano penalizzare invece quelli che intercorrono
fra chi vive nella stessa città, nella stessa via, nella medesima casa. Per non
parlare di chi entra in quello che consideriamo il nostro spazio vitale cercando
di trovare una solidarietà che sembra essere sempre meno possibile.
Dopo la
morte di Dio, la morte del prossimo è la scomparsa della seconda relazione
fondamentale dell’uomo. L’uomo cade in una fondamentale solitudine. È un orfano senza precedenti nella storia. Lo
è in senso verticale – è morto il suo Genitore Celeste – ma anche in senso
orizzontale: è morto chi gli stava vicino. È orfano dovunque volti lo sguardo.
Circolarmente, questa è la conseguenza ma anche la causa del rifiutare gli
occhi degli altri: in ogni società, guardare i morti causa turbamento.
Da sempre si
dice che l’uomo è uomo anche perché ha un rapporto con la morte diverso dagli
altri animali. Quando muore il suo simile, l’animale si ferma accanto al corpo
solo finché è caldo. L’uomo, a qualunque civiltà appartenga, compie riti e
seppellisce il morto. In qualche modo, per lui il morto continua a vivere.
Ma a
quest’antica coscienza i tempi ne stanno sovrapponendo una nuova. Eravamo
diventati umani accorgendoci che anche i morti sono vivi. Diventiamo post-umani
– o qualcosa che è altro dall’umano – quando cominciamo a convincerci che anche
i vivi sono morti. I vivi – la maggior parte dei vivi – sembrano aver smesso di
vivere da un tempo che, quando ce ne accorgiamo, ci appare immemorabile: che
non è, quindi, una conseguenza del nuovo secolo. La maggioranza dei giovani non
ha ancora cominciato a vivere. La maggior parte degli altri – non solo gli
anziani, anche i quarantenni – pare irrigidirsi in un rigor mortis psichico,
che contrasta con l’agitarsi fisico. Non pensano pensieri autonomi. Non si
interessano agli uomini che hanno vicino, non per malvagità, ma perché non li
capiscono.
Il prossimo
si è trasformato in lontano, uscendo dallo spazio. E il vivo in morto, uscendo
dal tempo.”
Commento nel mio solito modo,
corretto ed educato, attingendo alle mie esperienze personali, quando il
proprietario del blog mi chiede “per favore” di non farmi vedere mai più, mi
informa che non ha letto e non leggerà mai una riga di un mio post perché siamo
“troppo diversi” ( e, ovviamente, io troppo inferiore) mi chiarisce di preferire
di gran lunga discorsi come quelli dell’esimio psicoanalista alle mie parole da
quattro soldi e mi spiega anche che, se nella vita reale è costretto a
sopportare esseri inferiori per il quieto vivere, almeno sul blog vuole
circondarsi di persone di levatura sua pari.
Fantastico. Mi sembra di sentire una
persona di mia conoscenza che, in tutta la sua vita, non è mai andata in
vacanza al mare per non essere costretta a parlare con i vicini di ombrellone che
potrebbero non essere laureati suoi pari.
Se non altro, posso prendere spunto
dall’argomento di quel post senza dover chiedere il permesso, tanto il
proprietario non se ne accorgerà mai e, comunque, mi ha vietato qualsiasi
prossimo contatto. In tutte le cose c’è
pur sempre un lato positivo eheheheh!
A questo punto però potrei pensare
che, almeno nel caso in questione, quel prossimo sia morto per la presunzione che
manchi di cultura parallela o che, comunque, non sia in grado di condividere gli
stessi interessi e conoscenze. Meglio un
luminare come Zoja… Già, ma il luminare scrive il libro, tiene la conferenza ( per vendere il libro) e
poi se ne torna a New York. Non verrà mai a chiederci come stiamo, cosa
pensiamo, se ci sentiamo soli oppure no; lui sta sulla sua stella e noi quaggiù
ad arrovellarci perché non riusciamo a raggiungerla.
Io vivo in una piccola città e
quindi non posso esprimermi come chi abita in
una metropoli. Non devo nemmeno prendere il tram per andare al lavoro,
ma penso che, se lo facessi, probabilmente anch’io non parlerei con chi mi è
seduto vicino, ma solo perché sto pensando a organizzarmi la giornata, ho tanti
pensieri in mente. Ecco, credo che uno dei problemi fondamentali sia il tempo.
Non abbiamo più tempo per comunicare.
Mio padre mi raccontava sempre che,
una volta, le donne non lavoravano fuori casa, avevano delle dimore molto
spoglie e semplici da pulire, non erano in competizione con le altre donne su
chi avesse la cucina meglio attrezzata o il vestito più bello ( ne avevano uno
per la domenica e un altro per la settimana), i loro figli si accudivano l’un l’altro
e non dovevano essere accompagnati in palestra, in piscina, o a corsi di tennis e di musica, e loro
trascorrevano pomeriggi interi a chiacchierare con le amiche mentre
rammendavano o filavano. Oggi abbiamo tutti una vita frenetica, piena di
impegni a tutte le ore, chi ha più tempo a fermarsi per parlare?
Lo stesso succedeva agli uomini, che
si aiutavano vicendevolmente nei lavori, o che si incontravano in casa o all’osteria
per giocare a carte e bere un buon bicchiere di vino.
Oggi le macchine hanno reso tutto
più facile, non abbiamo più bisogno di chiedere aiuto a nessuno, ma perdiamo la
capacità di essere umili e disponibili.
Eppure, come è successo a me mentre
aspettavo l’operazione di mio marito, quando
ci si ritrova insieme in una situazione di difficoltà, durante l'attesa che il
proprio caro esca dalla sala operatoria, ecco che si ritrova la voglia di comunicare, di
scambiarsi esperienze, di confortarsi a vicenda. Allora non siamo morti e
nemmeno il nostro prossimo lo è. Forse eravamo solo troppo presi dai nostri problemi,
stretti nel morsa di quel tempo che non basta mai per fare tutto e che non ci
permette di guardarci intorno.
La sera, quando i rumori nella casa
tacciono, quando la quiete scende sulle famiglie affaticate dalla lunga
giornata, eccoci qui a scrivere sul blog.
Ci sembra che il popolo del web sappia
capirci meglio, sia più attento, più sensibile di chi conosciamo nella
realtà e non ci rendiamo conto che siamo
sempre noi, gli stessi della vita reale, quelli che corrono in continuazione senza
guardarsi intorno; è il momento che è cambiato, che è propizio, quello in cui ci siamo ritagliati un po’di
tempo e possiamo finalmente dire al nostro prossimo: “Parla, io ti ascolto”