C’era una volta un ragazzo arrivato in Italia da un lontano
Paese dell’Africa. Non si trattava di un Paese ricco e industrializzato, ma uno
di quei villaggi dove le famiglie vivono ancora nelle classiche capanne di
fango col tetto di paglia, con niente altro che qualche utensile e un giaciglio
di foglie di miglio. E’ uno dei paesi più poveri al mondo, che finanzia la sua
economia in gran parte grazie agli aiuti umanitari e dove il tasso di
alfabetizzazione è molto basso.
Il ragazzo, che chiamerò Mustafà, in base all’età venne iscritto
alla Scuola Media, ma il suo grado di istruzione non era sicuramente adeguato,
senza contare che non conosceva l’Italiano. La sua classe era molto numerosa,
ma i compagni lo accolsero bene e fecero subito amicizia con lui, nonostante il
suo comportamento fosse spesso di disturbo al lavoro scolastico. I professori
si arrabbiavano, ma poi cercavano anche di capire. Il poveretto era passato
direttamente dall’estrema libertà del villaggio africano alla rigidità delle
regole scolastiche europee. “Devi stare
seduto nel banco, alzare la mano per parlare, stare attento alle spiegazioni,
svolgere i compiti…” Ah quelle non erano certo regole che facevano per lui! C’erano
poi materie o attività che proprio non gli interessavano, e allora faceva il
diavolo a quattro, si alzava dal banco, girava per la classe, parlava forte, faceva
i dispetti persino agli insegnanti.
In prima media il Consiglio di classe discusse a lungo sulla
promozione; non si era certo impegnato o aveva raggiunto gli obiettivi
richiesti, ma era grande e grosso e aveva un buon rapporto con i compagni che,
non solo lo tolleravano, ma addirittura lo tenevano calmo e lo aiutavano a superare
le difficoltà. Dove avrebbe trovato un altro ambiente simile? In effetti, nella
classe c’erano anche due ragazzi gemelli, molto intelligenti e preparati, ma
anche umili e disponibili alla collaborazione, che si prendevano letteralmente cura
di lui come due bravi papà. Andavano a riprenderlo quando si attardava in
bagno, lo facevano sedere accanto a loro quando era nervoso, gli parlavano
dolcemente invitandolo alla calma ed all’impegno, gli spiegavano quello che non
capiva. Avevano con lui una pazienza veramente da santi. Nello stesso tempo erano
anche molto collaborativi con gli insegnanti. Si preoccupavano di accendere o
spegnere la lavagna interattiva, chiudevano a chiave la porta della classe
quando avvenivano gli spostamenti in altri luoghi, facevano in modo che sulla
cattedra fossero sempre pronti i materiali giusti, come il vocabolario, i giornali, i cd ecc...
Passarono tre anni e Mustafà imparò l’Italiano e qualche materia migliorando, almeno in parte, il
comportamento troppo agitato.
Il primo giorno dell’esame di terza media scrisse un testo per
lui veramente strabiliante, data la correttezza ortografica e grammaticale, ma
soprattutto scrisse di essere stato molto fortunato ad aver incontrato due
compagni di classe come i gemelli, “Due
ragazzi alti uguali, capelli neri, occhi marrone, sguardo sempre felice e bocca
sorridente. Straordinari, altruisti, gentili, affidabili più di qualsiasi altro.
In quei tre anni, l’avevano aiutato, sostenuto e, quando non aveva voglia di
fare niente, gliel’avevano fatta venire. Gli avevano dato tutto senza nulla in
cambio”
Mustafà si augurava di potersi sdebitare, un giorno, ma
sentiva che sarebbe stato difficile perché l’aiuto che aveva ricevuto era “INSDEBITABILE”, però era certo che quei
ragazzi “Gli sarebbero rimasti cari per
tutta la vita”.
Quando giunse il giorno dell’esame orale per i gemelli, l’insegnante
di lettere li fece entrare insieme, per
un momento, nell’aula, dicendo che avrebbe fatto qualcosa che non aveva mai
fatto in tutta la sua vita, cioè leggere pubblicamente il frammento di un tema
d’esame di un loro compagno. Disse anche che l’eccezione era proprio necessaria
e presto avrebbero capito perché.
Lesse così, con grande sentimento, la parte dell’elaborato
di Mustafà che li riguardava e i gemelli diventarono prima tutti rossi, poi
cominciarono a piangere come fontane. A quel punto, anche la Commissione d’esame
non poté più trattenere le lacrime e tutti piansero. Pensavano alla fatica di quei tre anni, alle
arrabbiature, ai piccoli e grandi successi, al sorriso di quei ragazzi
nonostante tutto e tutti, a quell’alunno che, da piccolo, testardo selvaggio, si
era trasformato in una persona responsabile e riconoscente, all’inevitabile
allontanamento di quella splendida classe verso nuovi orizzonti e percorsi
formativi. Naturalmente molti avevano dimenticato i fazzoletti ma, per fortuna,
esistevano quelli di riserva della prof. di arte, che li aveva portati prevedendo
la tipica “commozione da esame” e l’emergenza venne superata.
Fu per tutti un bel momento perché, nonostante quel che si
può pensare, non c’è niente che dia più gioia e commozione quanto un pianto di felicità.
Questa poi non è una favola, ma quanto successo oggi nella
mia commissione d'esame di terza media.